Il silenzio della battaglia
C’è uno stupefacente ‘paesaggio del mondo’, giungla o coltivato giardino, che, in parallelo al tempo-spazio della realtà naturale e storica, si deposita profondamente in noi sedimentando in infiniti strati e spessori e trasparenze. Può restare sepolto in noi per un tempo così lungo da sembrare che non si sia mai formato. Può riemergere intatto e sconvolgente quando ci sia lo sguardo di un ‘pittore veggente’ a farlo riemergere, a restituirci integra e aurorale la coscienza della nostra esistenza nella natura e nella storia. La pittura moderna attraverso la via metafisica e la via surrealistica (De Chirico, Savinio, Ernst, Matta, Gorky) ha cominciato a salire quei sentieri aspri e solitari che Rimbaud aveva praticato per imparare a ‘essere veggente’. Ma i pittori che sanno vedere quel ‘paesaggio del mondo’ che è affondato in noi sono pochi e sempre inferiori alle necessità. Luciano Cacciò è uno di quei rari pittori che sia riuscito a mettere piede in uno di quei sentieri dove si può imparare a diventare ‘veggenti’ e ad avere sguardo per quel ‘paesaggio del mondo’ che si è andato formando profondamente in noi. Con questa serie di pitture su carta che fanno ‘Il silenzio della battaglia’ ci svela cos’è stato, cos’è il ‘paesaggio’ della nostra esistenza in questi anni irripetibili nella loro violenza e nel loro dolore. La visione è sconfinata: l’occhio affonda in lontananze senza fine (come le nostre speranze), lande desertiche illuminate da una luce meridiana che non fa ombra. Una terra deserta con misteriose infiorescenze rosse, verdi, violacee, celestiali, gialle. Una terra dalla quale sembra affiorare, per energia e dolcezza di un segno che quasi scrive (come in certi favolosi giapponesi, in Sutherland, in Gorky dei cactus, in Wols, in Novelli) un sedimento di forme che paiono ossa ma così impastate con la ‘terra’ del ‘paesaggio’ da sembrare arbusti e fiori. In qualche foglio il nostro sguardo sembra portato su isole, arcipelaghi, costellazioni. La levità dell’esecuzione è straordinaria e sempre trasparente: è come se questa ascesa alla coscienza del ‘paesaggio del mondo’ dal nostro io profondo facesse luce su quell’altro paesaggio della natura e della storia che abbiamo vissuto. Siamo in una dimensione lirica e visionaria del segno e del colore che libera il mondo della sua opacità (proprio nel senso detto da Eluard per Ernst). La magia di questi fogli sta nella lontananza dell’apparizione: ma queste infiorescenza del verde e del rosso sembrano percorse e fatte vive dal sangue del presente. C’è stata una battaglia, c’è stato un massacro ma la natura cosmica sembra avere inghiottito la storia: ricordate i giardini ‘mangia-aeroplani’ di Max Ernst?
Dario Micacchi 1980-81<<< - Torna a Testi Critici - >>>