Le terre trovate
Le esperienze artistiche da alcuni anni a questa parte (ma non solo quelle artistiche) sembrano contrassegnate in maniera assai esplicita da una forte rivalutazione del soggetto contro le dominanti più fredde e oggettivanti degli anni precedenti. Questo nuovo orientamento dell’arte si è presentato con aspetti diversi, compresi tra una ripresa della pittura in chiave di fabulazione e di racconto e una riaffermazione dei valori della superficie in chiave di patterns decorativi. In mezzo a questi orientamenti più vistosi, tanto che sono essi ad aver assunto il ruolo di corifei della nuova situazione artistica internazionale, è possibile individuare un filone di esperienze meno aggressive ed egemoni ma non per questo meno rilevanti ai fini di una determinazione della mappa complessiva delle esperienze artistiche attuali: intendo parlare di un orientamento che si potrebbe definire neo-romantico, già individuato nelle sue linee fondamentali per quanto riguarda la ricerca teatrale d’oggi, e che, per quel che concerne le arti figurative, viene richiamando da qualche tempo l’attenzione della critica. La declinazione più evidente si colloca sotto il segno della citazione più o meno fedele, più o meno contaminata, e si delinea nelle forme di una pittura dichiaratamente, quasi provocatoriamente, iconica. Ma non è di questa declinazione che intendo parlare qui, quanto di un orientamento neo-romantico che si traduce in una sorta di pittura di paesaggio, ma che si affida ad una struttura linguistica in bilico tra iconismo e aniconismo, ossia ad un insieme di segni che insistono simultaneamente sulla propria autonomia sintattica e sulla propria capacità di aprirsi a una serie di livelli di significazione, ivi compresi rimandi ed allusioni a un universo naturale. A me pare che le opere recenti di Luciano Cacciò possono essere lette appunto in questa chiave, come una esperienza cioè che nasce sulla base di un rapporto empatico con la natura e che questo rapporto tende a restituire mediante segni allusivi, per via di analogie e di metafore visive. Le ragioni del soggetto fanno valere qui i propri diritti in maniera addirittura esplicita nelle forme di una pittura che si affida a segni e macchie cromatiche in cui è possibile riscontrare un lungo margine di una processualità quasi automatica. Qui, Luciano Cacciò comincia a svelare le proprie predilezioni e i propri debiti, soprattutto nei confronti di un artista come Matta, che va a collocarsi a metà strada tra surrealismo ed informale; Cacciò ha certamente guardato all’opera dell’artista cileno (cosa che del resto lui stesso ha sempre dichiarato), ma direi che ha guardato in modo particolare al momento in cui Matta avvia quel processo di fluidificazione delle immagini che porta la sua pittura ad attestarsi sul piano di un sistema fitto e dinamico di relazioni organiche. Ciò che Cacciò vuole mette re a punto è proprio un sistema di segni in grado di cogliere per analogia ed allusioni una realtà naturale, al di là di forme discrete e finite: per questa ragione, se possiamo parlare, per le opere recenti di Cacciò, di una pittura di paesaggio, occorre subito aggiungere che si tratta di una pittura non di veduta ma di visione, nel senso che essa scarta ogni tentazione del rinnovello far pittoresco per collocarsi sotto il segno di uno sguardo che vuole rendere ciò che non è immediatamente visibile. Anche su questa linea è possibile ritrovare in questa esperienza ultima di Cacciò le tracce di una grande tradizione pittorica, quella che si è posta il problema di cogliere i tramiti segreti tra uomo e natura e che ha trovato in Turner e nell’ultimo Monet alcune delle declinazioni più estreme e sconvolgenti. Di più suo mi sembra che Cacciò porti dentro questa pittura di ‘paesaggio’ una sensibilità cromatica più discreta e sottile, il gusto di colori tenui e leggeri, che puntano sulle trasparenze e su improvvise accensioni, che non creano però mai forti contrasti e dissonanze. Ne deriva una pittura di un accento più intimo e affettivo, che trae da un sentimento panico della natura i propri nutrimenti terrestri.
Filiberto Menna 1983<<< - Torna a Testi Critici - >>>