L’assoluta moralità della ragione

Per capire quanto la pittura di Cacciò sia di rifiuto e di ricerca di quella condizione del vivere che è la visione, basta porre a confronto i Frammenti di caccia, che costituiscono una parte essenziale della sua opera. Un’ala balenante di neri e bianchi offre la sua potenza vitale nel momento stesso in cui la mano si preoccupa di tracciare all’uccello colpito la parabola più cruda della morte verso terra. Frammenti come di volatili esplosi, un corpo, un piumaggio, un becco qua e là, si specchiano come al ralenti nei più splendenti colori dello spettro. Lo sparo ha un alone piumato che è simile ad un alba, mentre dal bulbo di un uccello che potrebbe anche essere una pianta, si allungano insieme luce e buio. Morte e vita, da intendersi come rassegnazione storico-critica e come palingenesi, coesistono ovunque; e se la ricerca è razionale, il frutto di un potere ideologico e culturale, il rifiuto è la derivazione di un istinto che combatte l’organizzazione delle cose e quasi vorrebbe negare evidenza al reale. Cacciò si tiene in una posizione intermedia tra il dire e il non dire e ciò che più lo attrae è lo scheletro, l’intelaiatura laddove le cose e gli esseri dipinti non sono ancora corpo, pur essendolo nel mondo in cui li ridurrà la morte: cioè il più irrimediabile e sublime. Lo stesso può dirsi dei paesaggi, fatti di luce intermedia, quando il giorno e la notte si disputano un orizzonte. Questo vedere per radiografie, senza consentire al reale alcuna autolatria, deridendo in più di un caso il potere narcissico del bello naturale (si abbiano presenti i nudi), genera una solitudine metafisica, intensamente magica, dove è ritrovabile l’eco di una chiaroveggenza de chirichiana: non per nulla anche qui il senso dell’architettura è spiccato, pur essendo qui architetture organiche: l’immaginazione ha il sopravvento sulla contemplazione, e valga per tutti quel profilo di pilota spaziale, messo insieme con brani di luce, frammenti eterogenei di infinite cose: cioè il pilota che guarda diventa egli stesso il proprio sguardo, le materie elastiche e luminose che dovrebbero invece porsi distanziate dalla sua pupilla. La prospettiva si annulla oppure si fa di enorme rilievo. Nei quadri in cui si descrive la nascita della vita, a grumo di sangue (per non smentire il discorso contraddittorio sul vero, di cui s’è detto), si entra in una pittura del mistero dove si brucia ogni idea letteraria che, altrove, può ancora persistere. Qui la maturità è piena: diciamo che si dipingono idee, senza partire programmaticamente dalle stesse, ma ritrovandosele con buona felicità inventiva quali risultati di un sogno della storia; e quella che si introduce nel colore, diremmo come un’ impollinazione psicanalitica, fa della natura un oracolo, ben lontano da qualsiasi tentazione di neonaturalismo. Cacciò fa esplodere i suoi viola o rossi apocalittici, sottoponendo paesaggi, figure, ritratti ad una continua metamorfosi che equivale, in letteratura, al saggio: che appunto predispone il significato parallelamente al testo. Se si potessero abbinare in un diagramma, queste vibrazioni di colore a quelle sonore di certe musiche primitive, totemiche, che ricalcano i rumori base della terra, e vi riconoscono il loro dio, si vedrebbe che non c’è differenza. E ugualmente forte scopriremmo la vocazione al rito, la cui funzione, tutto sommato, è di liberarsi religiosamente del peso di ogni divinità, per deificare il divino, racchiudendolo in ciò di cui disponiamo, negli oggetti persino. Da qui può derivare la falsa idea che Cacciò conservi nella matita o nel pennello un tic da simbolista. Niente di più errato. Il musicalismo cromatico, la cristallizzazione dello slancio vitale, si servono di emblemi, ma questi emblemi offrono all’istante la chiave per decifrarli (non si perda di vista quella costante, un po’ alla Kokoschka, di natura sconvolta e di investigazione in profondità coi suoi mondi eccentrici ed emotivi). Cacciò si mantiene in equilibrio tipicamente ‘europeo’ tra un primo istinto a tuffarsi nell’immemore primigenio e un secondo istinto verso la rarefazione intellettualistica e teorica. E’ possibile che tale equilibrio sia transitorio, e che il pittore, strada facendo, finirà per scegliere, definitivamente, l’una strada o l’altra; ma ciò che vale per lui, oggi, è questo; e tutto ne respira, anche il suo stile a macchie vigorosamente sintetiche, alternate a un andamento incisorio del tratteggio, ai contorni clonati, che a volte sembrano acquerellati. Anche il gusto dei rapporti spaziali si è venuto via via affinando e la luce, senza mai un’origine precisa, rende ben solidi, e al tempo stesso soffici, i suoi blocchi entro i perimetri che ora sono cieli altissimi, ora profondi abissi sotterranei: essendo più che mai valida la legge degli opposti, degli estremi. Guardando con attenzione, non si noterà mai un orizzonte, una superficie che equivalgano al suolo vivente, perché i corpi e i paesaggi o si immergono o si alzano, combaciando ogni forma con una norma interiore con cui si riflette sulla degradazione o sulla sublimazione umane. Mondrian e Pollock, dunque, cioè l’assoluta moralità della ragione e la ragione che si immerge nell’action painting (nè di Pollock si possono dimenticare, di fronte all’uso della matita di Cacciò, gli studi di figure e panneggi). Res cogitans e res extensa, con il problema centrale della riduzione dell’uomo e dell’ambiente naturale a episodi di una prigionia alla quale Cacciò offre, incessantemente, spiragli di fuga.

Alberto Bevilacqua 1973


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