Al primo barlume di verità e di vita

Luciano Cacciò ha ricevuto un anno fa il suo più autorevole imprimatur, niente meno che dal famoso pittore Matta. Si, proprio lui, il cileno (cubano e surrealista) Sebastian Matta. A dire il vero, Matta ha concluso la scheda di presentazione di Luciano Cacciò dicendo :’ma perché scrivere di come è il mondo di Cacciò, se voi potete vedere questo mondo nei suoi quadri?’, avendone proposto, tuttavia, una visione in chiave di pura istintualità. Anzi, per essere più chiaro, Matta si richiamò all’aneddoto di Apollinaire a proposito della contrapposizione fra la prigionia ‘classicheggiante’ di Picasso e l’autentica ‘libertà di sentimenti’ del doganiere Rousseau. E’ un fatto che, mano a mano che ci inoltriamo nei secoli, con tutto il tunnel di secoli dei quali la nostra memoria è portatrice ciò che sembra proprio indispensabile è il liberarsi di quella memoria per ‘essere se stessi’. Ma fin troppo rapido è il dileguamento di tale illusione, disalienante a livello puramente istintuale, riproponendosi all’opposto come unico viatico per essere davvero se stessi quello di non fare i ‘finti tonti’, di non fare gli ‘indiani’ con la storia e di tentare, piuttosto, di testimoniare, con tutta la sincerità che il caso richiede, quanto la verità del mondo risieda soprattutto ben dentro quel tunnel di secoli costituito dalla nostra memoria storica, e, nella fattispecie di un pittore o di uno scultore, dalla memoria storica dell’arte del figurare o del figurarsi immagini, che sono cose diverse soltanto nel metodo, rimanendo la pittura e la scultura, qualunque sia l’ipotesi di chi le esercita, arti figurative. E allora che cosa fare con il fiammifero acceso lasciatoci tra le dita da Matta a proposito della pittura di Luciano Cacciò? Verrebbe voglia di ripassarglielo in mano e stare a vedere come se la cava di rimando. Ad ogni modo, un po’ più di luce pretendiamo di averla fatta anche soltanto con le presenti considerazioni di valore generale, le quali, però, sono applicabili alla pittura di Cacciò in modo alquanto pertinente e concreto s esi pensa appunto che egli ha scelto solo apparentemente la via di ‘essere se stesso’ facendo il ‘finto tonto’ con la storia e che, in effetti, egli è duramente (direi, con il suo permesso, drammaticamente) impegnato a confrontare la propria istintualità con il mondo quale esso è e con l’idea che egli si è fatta di come il mondo deve diventare. Insomma, Luciano Cacciò è un istintivo in lotta deliberata non già con il suo istinto, che sarebbe cosa assai errata e artificiosa, ma con la ideologia della istintualità. E non è forse, anzi esattamente, l’appartenenza all’ambito di una lotta siffatta che permette di identificare ciò che oggi distingue un artista moderno sia dal praticantato accademico di tipo tradizionale che da quello di nuovo conio tecnologico, sia dal puro e semplice istintualismo comportamentale? Ecco dunque Cacciò lavorare con la matita, con la penna, con il pennello, come se lavorasse con un bulino, meglio si direbbe con un bisturi, e dar prova che se l’avvio delle sue immagini è forse indefinibile (se non ha livello di nube densa di elettricità e di uragano che devono esplodere), lo sviluppo di esse, una volta iniziato il loro dipanamento e la loro aggregazione neoplastica, è leggibili e definibile come volontà di approdo a una definizione e lettura certa di ciò che incerto, indefinibile e illeggibile appare a prima vista. Ho parlato di bisturi. Infatti Cacciò, via via che aggrega e scopre le neoplasie della sua invenzione simbolico-figurativa, non fa che tagliar via, ripulire e spolpare fino all’osso, fino all’indispensabile, fino almeno al primo barlume di verità e di vita. Al contrario di tanti che, plagiati dalla ideologia della istintualità, non fanno che lasciar proliferare sulla pittura e sulla scultura colate di materia e materialità del tutto prive di memoria storica e di ipotesi rigeneranti.

- Antonello Trombadori 1972


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