Il gioco di scomporre le parti
Il personaggio di un romanzo di autore triestino legge per caso le confessioni di un altro personaggio, morto suicida. Resta sbalordito nello scoprire nei pensieri di un estraneo una affinità così stretta con i propri da provare l’impressione di essere la vittima di una indebita appropriazione. L’approccio con la pittura di Cacciò desta in chi ha per professione lo scrivere (in me che scrivo) una impressione non dissimile: ed essa, prima di risolversi nell’appagamento definitivo, ha quasi la necessità di eliminare una sorta di contrariata sospensione. Immediata è la constatazione di analogie riposte e tuttavia inconfondibili fra gli intenti del pittore e quelli che lo scrittore-osservatore persegue. Una non differente ‘visione del mondo’; una comunanza di giudizio sulla condizione terrestre; una uguale considerazione dello ‘spirito’ in oscillazione ambigua fra il bene e il male, concetti illusori, ognuno lo sa; una identica inclinazione al giuoco di scomporre le parti, alle fantasticherie dell’ossessivo, dell’erotico, del morboso al gusto di svelare come nel disordine si manifestino le segrete contraddizioni dell’io. E mille concordanze ancora: non ultima quella che nasce dal conflitto tra una precisa scelta ideologica e l’intuizione del mistero dal quale tutto ciò che è creato rimane (rimarrà) avvolto. La maturità tecnica dell’artista si è espressa in una pittura difficile tutta da interpretare, come è difficile interpretare la pagina che lo scrittore-osservatore persegue per metodo. Al severo impianto strutturale, al complesso apparato linguistico, al milione di parole che sorreggono le fondamenta dell’opera di scrittura si contrappongono, nelle dimensioni della carta da disegno e negli spazi della tela inchiodata, un viluppo e uno sviluppo esplosivo di segni, di composizioni, di colori, di indizi, di sfumature, che con un solo colpo d’occhio, in un battito di ciglio, concedono allo sguardo dello scrittore-osservatore il possesso di ciò che il suo intelletto voleva significare con tanta fatica, l’espressività di un mondo che riteneva traducibile solo con un impegno annoso e che un intelletto diverso dal suo è riuscito invece a comunicare all’esterno con una immediatezza fulminea, con una durevole efficacia, con un senso dell’incantesimo che ha trovato nell’immagine il proprio dominio.
Francesco Burdin 1973<<< - Torna a Testi Critici - >>>