Il senso profondo di una rappresentazione
Come nella serie precedente dei Frammenti di caccia, anche in queste ultime opere si può individuare un tema ricorrente, una figura intorno a cui si dispongono sulle superfici del quadro tutti gli altri attrezzi visivi. Più che di un tema, o di una immagine immediatamente riconoscibile, si tratta di un nucleo di condensazione attorno al quale si aggregano e prendono forma le nebulose delle pulsioni e della memoria. L’artista non si serve, cioè, dell’immagine per indurre l’osservatore a compiere il percorso verso la realtà visibile, fenomenica, non le attribuisce il significato di una immagine di ri-conoscimento, ma piuttosto l’assume come una figura in senso propriamente retorico, come un topos in cui interno ed esterno, io e altro, trovano il punto di relazione e di oggettivazione linguistica. Di qui la necessità, per una giusta lettura di queste opere, di interdirsi ogni varco che potrebbe portare a una interpretazione narrativa, a trasformare in racconto la figura e la scena in cui questa si presenta. Ho parlato di attrezzi visivi e di scena, non a caso: il modo di rappresentazione posto in atto da Cacciò, se esclude una struttura narrativa, fa pensare piuttosto a una messa in scena, sicché gli oggetti della pittura si dispongono come oggetti teatrali su un fondale, dal quale emergono e rispetto al quale assumono una determinata identità funzionale. Il senso di questa rappresentazione scaturisce, per condensazioni improvvise, dall’incontro sempre diverso degli attrezzi visivi che l’artista costruisce dentro la pittura e colloca sul fondo, stabilendo tra loro relazioni continuamente mutevoli, ottenute con spostamenti minimi, guidati da una ragione intuitiva e intesi a mettere in movimento i meccanismi delle associazioni analogiche e della memoria, come una calamita all’interno di un campo magnetico, mettendone in evidenza le segrete linee di forza. Il primo atto della costruzione scenica è la delimitazione del campo pittorico coincidente con la stesura del fondo: una stesura lenta, per strati successivi di colore, che interagiscono tra loro, creano spessori cromatici e improvvise accensioni luministiche. Lo spazio della tela si trasforma in una sorta di interno, l’interno della pittura. La stratificazione del colore non concede che rare aperture alla luce: da questo buio emergono gli altri protagonisti del quadro, che si staccano dal fondo come oggetti scenici colpiti all’improvviso da un fascio di luce. Si staccano dapprima i mostri teneri, queste figure ricorrenti nella pittura di Cacciò, figure metamorfiche , a metà uccelli e metà piante esotiche, accattivanti e angosciose insieme. Sono immagini che scaturiscono dai processi primari della condensazione, e risultano definite entro la pittura da una pulsione della mano che procede per un lungo tratto automaticamente, al di qua (e al di là) di ogni controllo razionale, ma che l’incontro (meglio, l’agire dentro) con l’istituto sociale della pittura (della lingua della pittura) riconduce, ad un certo punto, dentro una logica costruttiva. Infine il terzo attrezzo: la finestra-cornice-specchio, che l’artista colloca in un punto determinato (ma sempre variabile) della tela, in modo da fornire una ulteriore, e questa volta più precisa, delimitazione del campo pittorico. L’attrezzo conferma che l’azione si svolge in un interno e stabilisce una terza indicazione spaziale, intermedia fra il fondo e la figura: si tratta di un dato importante nell’intera struttura del quadro, in quanto è esso che rivela la contrazione strema della porzione di spazio tra fondo e superficie, in cui la figura emblematica viene a trovarsi imprigionata. La finestra è anche l’unica apertura verso l’esterno, dal momento che la convenzione della pittura (dall’artista puntualmente rispettata) non consente di considerare tale la quarta parete del quadro, quella che dà sull’osservatore. Ma anche ora Cacciò punta sull’ambiguità, costruendo la luce della finestra-cornice con stesure dense di colore, da cui emergono, a volte, addirittura sagome evanescenti, quasi si trattasse non di una finestra, ma di uno specchio appannato, sicché lo sguardo cerca un varco attraverso la cornice, ma è risospinto dentro lo spazio del quadro. Il desiderio dell’osservatore subisce una caduta e per questa via trova le vie dell’identificazione (e della solidarietà) con la figura emblematica che tenta anch’essa invano l’uscita dal quadro, vive la propria vita effimera, si dibatte ciecamente, come un animale preso in trappola. O come ‘uno che non vuole affogare’. Scattano, a questo punto, i meccanismi dell’analogia e della metafora, la serie di significati secondi, infinitamente aperti, che l’immaginazione dello spettatore innesca a partire dalla concretezza fisica, pittorica, degli attrezzi approntati dall’artista. In questo spazio concentrato riconosciamo, ora, i luoghi della nostra vita quotidiana, riconosciamo nel mostro tenero il volto dell’artista, il nostro volto, una nostra, non improbabile, comune condizione di esistenza.
Filiberto Menna 1977<<< - Torna a Testi Critici - >>>