C’è uno stupore per il mondo...

Un anno teso di lavoro e senza distrazioni, folto di opere, dilagante pittoricamente per certi sentieri lirici aperti nel ’73, questo 1974 di Luciano Cacciò. E ora la sicurezza e la profondità del dare forma delle pitture nuove del ’75 che, per immaginazione lirica e finezza tecnica, hanno letteralmente bruciato tanti più mesi di quelli vissuti dal pittore. Sembrava, nella mostra a Roma dell’ottobre ’74, che Luciano Cacciò avesse dato non soltanto il meglio ma il massimo di sé. C’erano quadri del ’73 come «Uno che non vuole affogare» e il titolo corrispondeva all’immagine come certi titoli che dà Sebastian Matta. C’era la serie disegnata e dipinta dei «Frammenti di caccia» del ’73-74 ed alcune immagini come «pittura del flusso e del germinale» che è tipica delle immagini ultime. E c’era un quadro, «La grande vita», cm. 180 x 200, fatto di quattro tele quadrate, e che fu quello, per una sua latente figurazione allusiva, che suscitò più domande sulla natura dell’apparizione figurale, sul significato d’una figura indefinita e fiammeggiante che si alzava su altre forme tondeggianti contro uno spazio nero attraversato da un’ala. Nella presentazione Antonio Del Guercio dava un punto di vista per vedere. Scriveva che nell’astrazione lirica di Luciano Cacciò, dopo il periodo vicino al surrealismo germinale ed erotico di Sebastian Matta, si stava manifestando una condensazione figurale, una aggregazione formale, e che entrava nelle immagini un «senso concreto del consistere della figura umana». Pochi mesi avanti, in una mostra a Milano, erano piaciuti molto ad Alberto Bevilacqua i «Frammenti di caccia»: « Un’ala balenante di neri e bianchi offre la sua potenza vitale nel momento stesso in cui la mano si preoccupa di tracciare all’uccello colpito la parabola più cruda della morte verso terra. Frammenti come di volatili esplosi, un corpo, un piumaggio, un becco qua e là, si specchiano al ralenti dei più splendenti colori dello spettro. Lo sparo ha un alone piumato che è simile a un’alba, mentre dal bulbo di un uccello che potrebbe anche essere una pianta, si allungano insieme luce e buio». Le osservazioni di Antonio Del Guercio e il trasferimento in parole del flusso del segno e del colore sono assai utili per capire la ricerca del pittore e avvicinarsi a quella profondità lirica che va scandagliando. Ma non vanno prese queste parole in senso programmatico di figurazione o letterario-figurativo. Guai a separare le parole del critico o dello scrittore narrativo dalle immagini dipinte. Guai a spiegare, in chiave di racconto, le forme pittoriche e soprattutto queste di un mondo formale in gestazione e in flusso. Il motivo della caccia è, mi sembra, soprattutto una metafora esistenziale dove il pittore-uomo è cacciato e cacciatore, fa violenza e la patisce, sale in alto e cade: è sempre, non si dimentichi, «uno che non vuole affogare» ma non può liberarsi dall’ossessione intellettuale, erotica, lirica, di entrare nel profondo. Mi sembra, soprattutto dopo aver visto i quadri del ’75, varianti di colori caldi e freddi dell’immersione nel profondo, che la schiettezza e l’originalità delle opere attuali non stiano tanto in quelle concrete figure che sembravano affiorare da grandi spessori e da un tempo lungo dei sensi e dei pensieri, quanto nel fatto che la struttura sensibile e mentale portante l’immagine sia la forma di una tensione sospesa e irrisolta, di un’energia che fruga senza violenza, nei sensi e nei pensieri per conoscere in modo organico se stesso e il mondo. Nonostante certe interessanti allusioni che erano nella «Grande vita», Luciano Cacciò non è arrivato a una figurazione oggettiva. A Roma ci sono oggi due forti tendenze pittoriche: un neoastrattismo della percezione organizzata della luce; una pittura della realtà che fa una «scuola dello sguardo» analitico, iperrealista e politico. Luciano Cacciò, con la sua astrazione lirica, va per la su a strada che è un tentativo di stare nel grembo della pittura, là dove si generano terra e cielo, voli e cadute, grandi dedizioni e ripiegamenti con ferite, là dove, nello stesso istante, può stringere la mano alla fanciullezza e alla morte. Un suo segno, una sua forma, un suo colore evocano senso e memoria della natura ma come in transito, e non sai se si avvicina o si sta allontanando. Ma non ci sono paesaggi, ambienti, personaggi. E’ il pittore che si fa sono paesaggio, ambiente, personaggio. Ciò che noi vediamo è il momento del flusso, della germinazione, dell’aggregarsi o decomporsi della vita in grandi spazi resi con una materia molto fluida, tessuta di trasparenze, continuamente mossa dalla luce. Forse, tanti di questi quadri ultimi potrebbero essere composti in un’unica immagine-parete.
C’è uno stupore per il mondo, c’è una meraviglia per la potenza di grazia che può avere la tecnica. Ci sono le condizioni di sensi, di pensieri e di mezzi pittorici per non contentarsi dell’abitudinario, del già catalogato, vuoi nel repertorio oggettivo vuoi in quello astratto, e c’è, invece, la tentazione per ciò che è ignoto, fresco, imprevedibile, magari perduto ma che si può recuperare. Forse, pere tutti questi motivi, e altri, gli spazi puliti verdi, azzurri, grigi, gialli, terra calda, fanno pensare a spazi sterminati dove si può entrare e provare a vivere con libertà e coscienza delle azioni necessarie da fare. C’è un costo umano, certo, per questo andare verso la profondità, per creare illuminazioni della profondità. Luciano cacciò tenta di dare vita a una luce: è il titolo di un gran quadro di Sebastian Matta, «Dar à la vida una luz» (che è per l’artista il modo d’essere-esistere gravido del mondo e generare una immagine della continuità del mondo). Fase implosiva dice Matta quella dell’introspezione; fase esplosiva quella che cerca la «presa diretta» col mondo oggettivo. Un ritmo di diastole-sistole secondo Matta: «dare dell’uomo un’immagine che esprima ciò che ha costato per essere, ciò che continua a costare per essere sé stesso, ogni giorno più aperto ‘fino a farsi’ costellazione». Perché, insiste Matta, «si nous manquons les autres, nous manquons notre vie»: essere dunque hommonde, homo flux, honni aveuglant (colui che dà fastidio un pò a tutti, ma è accecante). Se ho ricordato Sebastian Matta, non è per mettere in ombra quella profondità che attraverso il colore hanno indicato un Rothko, un Nicholson e un De Stael; ma perché il metodo di Luciano Cacciò è ora quello di aprirsi al mondo con i mezzi della pittura, tecnica e immaginazione, che tanto è stata contestata come produzione nella produzione capitalistica e consumistica, ma che ha tuttora un suo grande potere, pure offeso umiliato comprato. La pittura, certo, non ha finito di correre i rischi della merce ma, nella misura in cui come Forma riesce a dissociarsi dall’informale della vita borghese, può vedere e far vedere ciò che non è detto, ciò che non è rappresentato perché sta al di là dell’esperienza mutilata e programmata; può essere voce di quanti ancora non hanno voce, sguardo di quanti non hanno ancora sguardo; può nominare l’innominabile e metterci di fronte alle speranze che tradiamo, ai delitti che dimentichiamo e occultiamo; può liberare il mondo dalla sua opacità (come diceva Eluard di Max Ernst), può metterci gli occhi su un pianeta mai visto o che non volevano più farci vedere, con tanti discorsi sulla morte dell’arte e dei mezzi dell’arte, perché del pianeta-uomo continuassimo a fare un’esperienza mutilata con una sensibilità mutilata. Un pittore che con immaginazione e verità si apre al mondo crea anche per noi la possibilità di farci penetrare dal mondo e così entrare nel mondo.

- Dario Micacchi 1975


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