Una contraddittorietà tutta umana
Di Luciano Cacciò pittore molti hanno voluto sottolineare l’estrazione letteraria. Cosa in sé giustissima e opportuna se si concede ancora alla letteratura il senso squisito del dire e la sottigliezza dei passaggi d’emozione: tutte cose che questo artista possiede in sommo grado e che strumentalizza in funzione di una nascosta violenza e di qualche sotterranea perversità d’immagine. Voglio dire che sbaglierebbe chi leggesse, come alcuni hanno fatto, la pittura di Cacciò come un fatto di sublimazione poetica dei conflitti e delle contraddizioni esistenziali perché, in realtà – o surrealisticamente, se si vuole- qui le inquietudini striate d’azzurro, i drammi e gli stupori di cui si intridono le avvelenanti gioie del colore e le fantasmagorie del segno, prendono inedito spessore di vita, si fan concrete nell’allusione continua a processi dilaceranti neppure attutiti dalla ragion poetica. La violenza, insomma, è tutt’altro che esorcizzata in queste opere piene di falso candore, ma esplode proprio perché trattenuta, implacabilmente trattenuta, dalla bellezza pittorica. Altri hanno accennato a suggestione del Matta più incisivo e, in occasione di una mostra bolognese, mi parve giusto accennare a una parentela, a un rapporto di congeneri, fra Cacciò e Osvaldo Licini, artista impraticabile quanto apertissimo, erratico e puntuale. In tutte queste citazioni, è evidente, gioca una componente ‘letteraria’, una mediazione dei segni che si fan carico, oltre che dell’eleganza delle forme, della loro voracità e di quella forza disordinante che han sempre le più belle e ferme composizioni d’arte. L’immagine appare infatti in Cacciò come sospesa in attesa di un evento che si produrrà al suo esterno e che verrà a contemplarla attraverso la necessaria partecipazione emotiva dello spettatore, al quale si rivolge non come una risposta ma come groppo di interrogativi irrisolti. Resta, al di fuori del discorso di poetica, quella tensione dialettica, quel folto di ambiguità in cui l’artista può riconoscersi come soggetto irripetibile, agente di un’introspezione che più s’affonda nei meandri della personalità individua tanto più si dilata all’esterno ad arricchire il processo che sempre s’instaura fra persona e società quando si tentano le strade della comunicazione per segni e non per segnali, per allusioni e non per citazioni. Cacciò getta quindi nel dipinto tutte le tensioni e anche tutti i tremori del suo essere uomo partecipe e coinvolto nella situazione concreta dell’esistenza, procedendo per metafore e per simboli che infittiscono di risonanze le cifre del mistero pittorico. Risonanze certamente liriche, ma colme d’interiore aggressività e protese, spesso, alla denuncia evidenziata ‘letterariamente’ anche dall’uso dei titoli. I frammenti di caccia sono abbastanza emblematici di questo discorso che rifugge dall’astrazione almeno quanto vi si tuffa alla ricerca dell’indefinibile. Non so se quella di Cacciò possa dirsi, come ha scritto Alberto Bevilacqua, una posizione intermedia fra il dire e il non dire, o piuttosto, come a me sembra, un accettare l’immagine della realtà prendendo atto della sua incapacità di dire e di non dire, ponendola per quello che è: falso-reale, probabilità improbabile. Ecco allora che l’unico senso che si possa ‘ragionevolmente’ trovare nella pittura di Cacciò è il non-senso magico, di una magia fatta di segni, colori, vibrazioni: il vecchio codice, insomma, che da sempre nasconde e disvela quel che diciamo il mistero dell’arte. Si potrà a questo punto anche parlare di metafisica, almeno per quel trattenere l’immagine in sospensione di cui prima dicevo, ma qui tutto si avverte precipitare, cosicché anche la certezza del magico, l’illusione creatrice con le sue ambigue verità, si dissolve nel momento stesso in cui vien creata. Da quel poco che ho potuto dire si potrebbe trarre, me ne rendo conto, una immagine contraddittoria dell’opera di Cacciò, così evidentemente limpida e coerente nel suo percorso formale. Ma la contraddittorietà c’è, interna e pulsante, e non lascia adito a troppe speranze che non siano quelle che derivano dall’artista e allo spettatore la consapevolezza di vivere insieme la contraddittorietà, tutta ancora umana, del nostro tempo.
- Franco Solmi 1975<<< - Torna a Testi Critici - >>>