Le terre trovate

Sembrerà un’affermazione paradossale, ma a me pare che il portato artistico più diffuso di questi anni loschi e violenti sia soprattutto un’estenuazione atmosferica, un gesto edulcorato del suggestivo intimistico, una delicata, quanto sfegatata,se non impudica, celebrazione dell’io. Il terrore del mondo trova il suo corrispettivo più facilmente speculare nel terrore della ragione che nel mondo agisce. Consegnarsi al flusso adirezionale e cautamente selvaggio (ah, la rassicurante brutalità degli ultimi nipotini dell’art brut!) viene spacciato per libertà primigenia finalmente ritrovata, per puro (come dire, angelico) soddisfacimento dei ‘bisogni’ espressivi oltre ogni impaccio teorico. L’istinto, insomma, è la sola garanzia: soprattutto rispetto al mercato. La lingua non parla, si parla: e, cioè, muta della propria mutevolezza stagionale. La pulsione che un quindicennio fa si espresse in letteratura con la formula barthesiana di ‘piacere del testo’, diventa oggi clamorosamente proclamato (e non meglio definito) ‘piacere del dipingere’ e dialoga come pittura della piacevolezza. Il fatto è che -come è sempre accaduto- questo piacere può andare in molte e contrastanti direzioni, e sortire a molti e contrastanti risultati. Memoria storica e memoria recente insegnano. Un artista come Luciano Cacciò, che comunica perfino tattilmente il suo piacere formale, lo sa perfettamente e si comporta di conseguenza. La suite di carte intelate che il pittore presenta sotto il titolo ‘Le terre trovate’ costituisce una dimostrazione estremamente rigorosa di questa situazione conflittuale. Cacciò è da sempre un pittore materico di natura lirica: e nel suo caso, lirico è qualcosa di assai lontano da elegiaco. Egli possiede una spontanea felicità di rapporto con tutto ciò che è carne e natura, paesaggio e metamorfosi biologica, nascita e disfacimento, e potrebbe (assai comodamente) svilupparla in pura dissipazione degustativi. Gliene verrebbero olii e carte di rara (e stucchevole, ahimè) piacevolezza. Ma Cacciò è uomo e pittore di ragione: di una ragione al tempo stesso mite ed implacabile. Per questo, come ha scritto tempo fa Filiberto Menna, anche la sua pittura di paesaggio è ‘una pittura non di veduta ma di visione’. E mi pare legittimo, a questo punto del percorso ormai ricco dell’artista, parlare di realismo visionario: strumentazione e prassi che lavorano nel magma non per via naturalistico-sensitiva, ma per via sintetico-percettiva. Perché – ancora paradossalmente – Cacciò agisce per esclusioni mostrando di agire per accumulazione: nel senso che le sue paste, le sue materie, i suoi graffiti raggiungono la densità o la capillarità solo a prezzo di un filtro attentissimo, in cui ciò che è non detto o semplicemente alluso conta più di ciò che è dichiarato. Cacciò è un pittore che occulta e gioca sulle reticenze. Le sue chiarezze trasparenti restano opache per l’occhio che intenda coglierne soltanto la stratificazione esibita dei lumi e dei cromatismi geologici. Egli lavora, in queste Terre trovate, non di fronte ma dentro il paesaggio, dove le strutture profonde s’innervano con la sottigliezza acuta e crudele dei gangli nervosi. Ecco in quale senso avviene il ‘ritrovamento’: nel senso meno paesaggistico e più conoscitivo. La suite di queste tavole è un lucido percorso gnoseologico, non una passeggiata turistica. Cacciò, insomma, è interessato all’epidermide e alle sue seduzioni solo in quanto vi scopre l’involucro di un conflitto insanabile: ed ecco allora che questo elegante pittore lirico scarta rispetto a un codice che in certa quale misura pareva anche competergli, per riuscire un pittore drammatico, talora perfino sanguinoso. Un pittore del caos, dell’universo devastato e della tragica smemoratezza dell’uomo alla fine del suo rapporto con le cose e la vita. Alla fine: o a un altro principio. Che Cacciò individua e persegue nelle sue tracce lineari oblique, o sistema nei suoi riquadri invasi da matasse che fanno pensare a capigliature viola, rosa, verdi. Su tutto, negli interstizi di tutto, un cromatismo tenue, che è lo stesso respiro ritmico dell’immagine. L’indeterminatezza di questo cosmo molto italiano è fissata con pungente fermezza dalla presenza diffusa di elementi filiformi o aggrovigliati (piante? fiori? infiorescenze?) che rendono all’improvviso netta una tavolozza che dalla propria ‘sporcizia’ trae raffinatezza e rigore. A far emergere dal caos un ordine e una struttura di sguardo e di memoria è il segno, che spesso si fa perentoriamente legislatore di un sistema, magari solo indicato dalle linee geometriche di un pastello, ma non per questo meno deciso e decisivo. Chiusura e separazione sono così sintomi di massima apertura della visione. Il paesaggio è spesso solo la sinopia di un paesaggio defunto, in cui tutto è evanescente e nulla è atmosferico: e la ragione di quest’effetto a me pare assai semplice, dal momento che quella di Cacciò è un’iconografia strutturale che lavora sull’associazione e l’assemblaggio di nuclei, non sul frottage delle sensazioni. Si guardi la fluenza leggera di queste luci acquee, che bagnano spesso imageries di sapore orientale come citazioni travestite (con ironia e tenerezza). Si guardi il rapporto di grande libertà complementare che si determina tra intervento della matita sul dominio dell’olio o della cementite di fondo. Si capirà come ci si trovi di fronte a un’operazione astrattiva che non oblierà mai l’ossatura dell’immagine in tutta la sua presenza drammatica e in tutto il suo peso specifico. Mappe, geologie, abrasioni: tutte impaginate come sotto una lieve furia, un uragano tiepido. Ecco certi cobalto che irrompono a fascia, o certe macchie di rosso che insanguinano il paesaggio: fino al senso di vortice dei pezzi più recenti, nei quali il tessuto elaboratissimo della pittura fa lievitare il brulichio di una materia minimale che vive e si dissipa, e la perdita si rovescia nel suo opposto, in un’affermazione che non cessa di mettere in discussione se stessa, le proprie promesse e i propri esiti.

Mario Lunetta 1985


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