Vulcano, vulcani

Se penso all’immagine del vulcano nella storia della cultura, mi appare costantemente sotto due aspetti irriducibili, seppur coevi: quello assoluto di Leopardi e l’altro nei termini del folclore estenuato della Scuola di Posillipo. Non esiste vulcano più nudo, più ristretto alla sua funzionalità omicida di quello evocato con parole scheggiate da Leopardi: ‘Qui sull’arida schiena/ Del formidabil monte/ Sterminator Vesevo’ D’altro canto, anche la proliferazione ad uso turistico di tanti coni neri, col pennacchio pettinato e la sciarpa rosa a guisa di cravatta, ha un modesto valore intrinseco: serve ad ingraziarsi il risveglio degli dei inferi. La Scuola di Posillipo non aspira all’arte, fa gli scongiuri: replicando all’infinito l’immagine intende addomesticare la natura. Non conosco la casistica delle iconografie del vulcano, ma immagino che i pittori si preoccupino per lo più di inquadrarlo a distanza: intero, fotogenico, con la planimetria in scala del circondario destinato a subirne il potenziale dominio. Altrimenti, ci si munisce di una descrizione scientifica che può esprimersi in un grafico, una serie di numeri, nell’interazione di aspetti parziali quali la geometria dei crateri, lo composizione delle rocce, la dinamica dei gas, ecc. Cacciò è stato il primo (?), l’unico (?) che abbia scelto il punto di vista di Empedocle il quale – lo si ricordi – solo al termine sprofondò nel vulcano nell’estremo conato d’identificazione, mentre lungo il dramma abbandona le equivoche transazioni umane per viver la natura immediatamente: ‘Presto al linguaggio dei mortali e a vuote/ Parole non mi serve più la lingua. /Si, caro! Il mondo già si trasfigura, / E il respiro è più libero e leggero / E come là sull’alto dell’Etna le neve / Alla luce del sole si riscalda / E brilla e fonde e scorre dalle cime / Liberata…./ E fiorente sull’acque che precipitano / L’arco tranquillo d’Iride si spiega / Così libero scorre e ondeggia il cuore, / Cade ogni peso, e luminosa piove / Dall’etere la vita e vi fiorisce (Hölderlin, Empedocle sull’Etna; trad. F. Borio). Il vulcano degli ercolanesi e dei pompeiani fu brutale, definitivo; quello dei pittori dell’Ottocento eloquente fino alla logorrea. Cacciò, oggi, si è proposto di trasporne la nozione fisica in termini di pittura, ora rarefatta ora densa come un corpo opaco. Della natura dei vulcani egli vuole rendere il rombo, l’evaporazione dell’aria, l’imminenza dei crateri, l’impenetrabilità dei fianchi, la quiete degli anni di stasi, la testarda persistenza del verde, l’arroganza del rosso che fagocita i verdi, illumina la notte, si fa corpo spesso e invasivo. Il vulcano non viene identificato in un volume e in una massa integri; esso nasce da tante impressioni parziali, viene aggirato, disseccato, assunto poco a poco come un consesso di sensazioni che non descrivono, presentificano. Personaggio persistente pur nelle variazioni è il cielo, che consente un ancoraggio stabile attorno a cui ruota la speciosità infinita delle apparenze dei vulcani. Cacciò, generalmente, non è pittore che si fondi sull’estemporaneità, sui rapimenti estatici e fulminei; egli aspira ad articolare la propria immagine come un teorema, la cui logica meditata non sia disgiunta da una sensibilità partecipe, panica, quasi allarmata. Sono stato sorpreso io stesso dalla rispondenza della pittura di Cacciò ai versi di Hölderlin ai quali certo non pensava sul momento. La sublimazione della fisicità della natura, lo sciogliersi della neve in luce, i colori che esplorano tutta la gamma dell’iride, la rarefazione che si fa respiro, spuma; tutto questo troverete nei dipinti di Cacciò con un parallelismo tanto più stringente quanto più casuale e non ricercato. Non saprei dire se chi guardasse la teoria dei dipinti senza il suggerimento del titolo arriverebbe a riconoscere una successione di altitudini. Forse no, ma ciò avviene perché la distanza ravvicinata calamita dentro la pittura; le pennellate imbevute di colore che ora intessono variazioni sul tema del tricolore, ora esplodono come sontuose penne d’uccello, ora si diradano in una fantasmagorica nevicata verde, fanno aggio sul significato. Prima impongono i diritti della pittura e quindi si stabilizzano attorno ad un concetto col quale diventano solidali. Cacciò in passato ha dipinto diversamente. Preferiva campi lunghi e suggestioni indefinibili. Questa volta si è immedesimato totalmente con corpo della sua opera: vede dal punto di vista del vulcano!

Enzo Bilardello 1990


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